Il canto aiuta i malati di Parkinson a ritrovare una voce migliore
Quando si pensa al morbo di Parkinson vengono in mente il tremore, i problemi motori o le difficolta ad alimentarsi o a utilizzare il bagno, ma di rado si pensa a quanto possano essere gravose le limitazioni nel parlare, il non riuscire a farsi capire dagli altri quando si risponde al telefono o se si vogliono scambiare quattro chiacchiere con qualcuno. Sono molti i molti pazienti che non possono più comunicare con amici e parenti e vivono imprigionati nel sofferenza. In questo campo della riabilitazione, negli anni ‘80 si è particolarmente impegnata Lorraine Ramig, dell’Università del Colorado, che ha sviluppato una tecnica di logopedia per migliorare l’eloquio di chi è affetto da malattia di Parkinson. Il metodo è stato poi brevettata col nome di Lsvt®Loud, dove Lsvt è l’acronimo di Lee Silverman Voice Treatment, cioè trattamento vocale di Lee Silverman, nome del primo paziente curato dalla specialista americana.
Una voce migliore
Al secondo Congresso Nazionale Limpe-Dismov (Accademia per lo Studio della Malattia di Parkinson e i Disordini del Movimento), appena svolto a Bari, Marilina Notarnicola del Centro Giovanni Paolo II di Putignano ha presentato i risultati ottenuti da quattro centri pugliesi che hanno restituito a sette pazienti una voce migliore per intensità, durata e frequenza nell’emissione dei suoni, con miglior articolazione e comprensibilità della parola. Basandosi sugli effetti benefici che, come dimostrano ormai molti studi scientifici, la musica esercita su questi pazienti, che per esempio si muovono meglio ascoltando certi brani musicali o ballando, è stata apportata una modifica “musicale” al metodo Lsvt, trasformando il protocollo originale di educazione vocale in forma corale. L’idea non è nuova, ma finora era stata provata solo in pazienti affetti da demenza di Alzheimer, anche se in quel caso si puntava più sull’effetto motivazionale e cognitivo del cantare insieme, che sul miglioramento dell’articolazione vocale.
I cori della messa
Partendo dal presupposto che le funzioni religiose sono animate da canti corali, i ricercatori inglesi della Canterbury Christ Church University e dell’Università del Sussex, diretti da Paul Camic, hanno pubblicato sulla rivista Dementia uno studio che indica come partecipare ai cori della messa abbia effetto positivo su problemi comportamentali, psicologici e cognitivi, migliorando anche le cosiddette ADLs, le activities of daily living, cioè la capacità di svolgere le normali attività quotidiane come fare le pulizie di casa, gestire il lavoro, aver cura di sé, assumere farmaci da soli, curare l’igiene personale, tutti aspetti in cui, oltre a una buona cognitività, è importante avere anche un adeguato controllo motorio.
La canto-terapia
Nello studio inglese sono bastate 10 settimane per osservare buoni risultati in soggetti che già presentavano segni di demenza, effetti peraltro riscontrati anche nei familiari che accompagnavano nei cori i pazienti meno autosufficienti. Nella sperimentazione italiana sul morbo di Parkinson, gli effetti sono stati ottenuti dopo che i pazienti hanno partecipato, per due mesi, a sessioni di un’ora e mezza alla settimana di canto corale, sotto il controllo di logopedisti specializzati nell’assistenza a questo tipo di malati. Questo risultato indica come anche per questa patologia la canto-terapia potrebbe essere di grande aiuto per liberare i malati dall’isolamento che grava pesantemente sulla loro vita.